Le
resine a scambio ionico sono state utilizzate preferenzialmente su pitture
murali, fin dalla loro nascita nel cantiere della Cappella Brancacci della
chiesa del Carmine a Firenze. Allora i restauratori dell’Opificio delle Pietre
Dure, e Sabino Giovannoni in particolare, misero a punto le cosiddette “resine
desolfatanti”, che permisero di rimuovere in maniera controllata le
solfatazioni presenti sugli affreschi di Masaccio.
Questo
ambito applicativo si è poi allargato ad altri settori, come quello dei
materiali ceramici, come ricordato nel Bollettino CTS 16.1 del 2008
(Link: https://www.ctseurope.com/site/dettaglio-news.php?id=77), in cui si descriveva uno studio condotto sulla
rimozione di incrostazioni di carbonato di calcio da delicate ceramiche
archeologiche e medievali.Come
è noto le resine a scambio ionico si dividono in anioniche e cationiche.
Le
prime si legano agli anioni, preferenzialmente solfati, e rilasciano OH-, le
seconde invece trattengono i cationi, come Ca2+ e Mg2+,
rilasciando idrogenioni H+.
Possiamo
riassumere le due reazioni:
[Resina -NH3+ OH- ]
+ A- ®
[Resina -NH3+
A-] + OH-
[Resina -SO3- H+ ] + M+ ®
[Resina -SO3-
M+ ] + H+
Dove con
Resina si intende un copolimero stirene/DVB (divinilbenzene), sulla cui
struttura sono innestati i gruppi scambiatori veri e propri, -SO3- e -NH3+, mentre A- e M+ rappresentano dei generici anioni e cationi.
Le resine a scambio ionico, in forma polvere,
vengono impastate con acqua demineralizzata e applicate come impacchi sulle
superfici da cui vogliamo rimuovere patine carbonatiche (le cationiche), o
solfatiche (le anioniche).
Da precedenti studi è possibile individuare le
ottimali condizioni operative, riassunte qui sotto:
- Temperatura:
Quella ottimale è 30°C, e a temperature molto
basse, vicine a 0°C, la reazione procede con estrema lentezza.
- Tempo di
Contatto: Possono andare da
pochi minuti, per la rimozione di sottili velature su materiali sensibili,
fino alle 24 ore se il materiale su cui si lavora non risente dell’azione
delle resine; a tempi superiori i risultati sono invariati.
- Umidità:
RH = 100%. L’impacco perde efficacia una
volta asciugatosi, quindi in climi caldi si consiglia l’aggiunta di
seppiolite. Troppa seppiolite può però diminuire l’efficacia di scambio. Un
altro accorgimento per mantenere l’impacco umido è quello di stendere sullo
strato di resina a scambio un secondo
strato di Arbocel e acqua distillata oppure una pellicola di
polietilene o di alluminio.
Leggende
metropolitane: le resine a scambio sono costosissime!
Bisogna ricordare che le
resine a scambio agiscono soprattutto col primo strato a contatto del
manufatto, ossia per uno spessore di qualche centinaio di micron. Il rimanente
spessore dello strato di resina funziona solo da supporto per l’acqua, e quindi
non si “consuma”.
È quindi possibile, se la superficie su cui si
è operato non è sporca, recuperare la resina a scambio e riapplicarla un paio
di volte, aggiungendo acqua, rigorosamente demineralizzata; l’impasto perderà
progressivamente efficacia, quindi non sarà possibile riutilizzare la resina
molte volte. Questo accorgimento permetterà però di ridurre sensibilmente i
costi! Caratteristiche delle resine a scambio IONEX.
Ionex H
cationica forte
Ionex OH
anionica forte
Matrice
Stirene DVB
copolimero
Gruppo funzionale Solfonato
ammine quaternarie
Aspetto
Polvere ambra
Polvere leggermente
ambrata
Forma ionica
H+ OH-
Capacità di scambi
>1,80 eq/L (H+)
>1,10 eq/L (OH-)
Dimensione delle particelle
20 - 350
38 - 150 µ (60-75%)
>150 µ (max
10%) <38 µ (15-30%)
Contenuto di umidità
40%
n.d.
Una recente pubblicazione [1] descrive in
dettaglio le ricerche storiche, le indagini scientifiche e l’intervento di
restauro avvenuto a distanza di 40 anni dallo storico restauro dell’affresco
del Beato Angelico situato nella sala del Capitolo di San Marco, a Firenze, la
famosa Crocifissione.
Il capolavoro dell’Angelico fu il primo grande
intervento di desolfatazione-consolidamento effettuato con il “metodo del
bario”, chiamato anche “metodo Ferroni-Dini” dai nomi del chimico Enzo Ferroni
e del restauratore Dino Dini, che ne svilupparono la metodologia, associando
all’impacco dell’idrossido di bario, sostanza già nota ma mai usata
estensivamente, l’azione del carbonato d’ammonio [2].
La prima cosa da
sottolineare è che le analisi scientifiche hanno trovato l’opera in buone
condizioni, nonostante le drammatiche condizioni da inquinamento da solfati in
cui versava l’affresco nel 1970. A distanza di 40 anni dal restauro del Dini la
fuoriuscita di solfati era minima, e limitata solo ad alcune zone che già in
fase restauro avevano evidenziato un avanzato stato di degrado, e che erano state
trattate con ripetuti impacchi di idrossido di bario.
Sotto la direzione di Magnolia Scudieri ed il
coordinamento scientifico di Mauro Matteini, hanno lavorato gli esperti
dell’IFAC-CNR, ICVBC-CNR e LABEC-INFN, tramite tecniche diagnostiche
non-distruttive o micro-invasive, quali indagini multispettrali, FORS e XRF.
Le analisi hanno fornito nuove e più
approfondite informazioni, come la scoperta di un crocefisso dipinto sul
tralcio di vite tenuto in mano da San Domenico, ormai quasi del tutto scomparso
(foto 3).
Curiosamente è toccato a
Giacomo Dini, nipote di Dino Dini, intervenire sulle superfici dell’affresco
che avevano iniziato a mostrare alcune problematiche, in particolare sulla zona
inferiore destra. Qui era presente un leggero ma fastidioso sbiancamento, che
ostacolava una buona lettura dell’opera, ma soprattutto si erano ripresentati,
seppure con minor virulenza, microsollevamenti “a pustola”, che rischiavano di
diventare un pericolo per la conservazione, e non solo un problema estetico, se
non si fosse intervenuti tempestivamente, con un intervento che passava dalla
manutenzione ad un vero e proprio restauro.
Come ben descritto da Matteini nel commento
all’intervento [1, pag.98-107], si riscontravano alcune difficoltà ad
intervenire nuovamente con il metodo del bario, o con il sistema alternativo
dell’ossalato d’ammonio, e dopo numerosi test effettuati su diverse aree si è
deciso di procedere con un trattamento desolfatante con resina a scambio
anionica Ionex OH.
In questo caso la reazione si configurava così:
2[Resina -NH3+
OH-] + CaSO4 ® 2[Resina
-NH3+] SO42- + Ca(OH)2
Con la rimozione dell’impacco il solfato viene
asportato assieme alla resina a scambio ionico, e non trasformato in un sale
insolubile come avviene con il metodo del bario. Inoltre l’idrossido di calcio
formatosi migra nei pori dove poi carbonata riconsolidando blandamente la
superficie.
L’intervento si è poi concluso con il vero e
proprio consolidamento, effettuando un’applicazione del bario idrossido su
tutta la superficie, naturalmente escludendo le zone a secco (quelle con
oltremare, malachite e oro), che avrebbero risentito dell’alcalinità del
sistema. Questo processo di consolidamento ha anche migliorato la lettura delle
immagini riducendo ulteriormente l’opacità di certe aree - che pure era già
stata ridotta intervenendo con la Ionex OH - grazie alla formazione di
carbonato di bario.
Questo complesso cantiere rappresenta la
definitiva consacrazione della metodologia del bario, introdotta quasi 50 anni
fa, e passata attraverso al vaglio della scienza e del tempo, e di come questo
procedimento si integri alla perfezione con l’utilizzo delle resine a scambio
ionico.
Bibliografia
1. “La Crocifissione dell’Angelico a San
Marco quarant’anni dopo l’intervento della salvezza. Indagini, restauri,
riflessioni” a cura di Magnolia Scudieri, Quaderni dell’Ufficio e Laboratorio
Restauri di Firenze, Polo Museale della Toscana, N. 1, 2016.
2. M.
Matteini, A. Moles, M. Oeter, I. Tosini; "Resine a scambio ionico nella
pulitura dei manufatti lapidei e delle pitture murali: verifiche sperimentali e
applicazioni." in “La pulitura delle superfici dell’architettura”; atti
del convegno di studi, Bressanone 3-6 luglio 1995.
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