Il tempo sembra passare più velocemente per le opere d’arte
realizzate nell’ultimo secolo. Per sostenere questa tesi si portano ed esempio
i restauri di opere realizzate pochi decenni prima, e sicuramente questo è un
dato di fatto. Non scordiamoci però che lo stesso Leonardo intervenne nel
restauro del suo Cenacolo, e sappiamo perché… Potremmo quindi legare
l’intervento vinciano all’arte contemporanea con una parola: sperimentazione.
Sperimentazione degli artisti, che sempre più spesso utilizzano
materiali insoliti, anzi, fanno della ricerca dell’insolito una loro modalità
espressiva.
Sperimentazione dei produttori dei prodotti per la produzione
artistica, che spesso hanno immesso sul mercato materiali “fragili”, dai
pigmenti che subivano alterazioni, ai leganti instabili. E sui materiali
polimerici utilizzati come leganti ci soffermiamo ora.
Nell’immaginario collettivo l’uso dei polimeri sintetici
nell’arte risale agli anni ’60, e il termine “acrilico” è andato a riassumere
tutte le classi chimiche dei leganti sintetici. La realtà è stata ben diversa,
ed è necessario fare un po’ di chiarezza sulle date.
I polimeri vinilici trovarono ampia diffusione in
Germania a partire dal 1925, con il marchio Mowilith, e gli acrilici arrivarono
pochi anni dopo, con i vari marchi della Rohm and Haas. Naturalmente ebbero
inizialmente un utilizzo solamente industriale, e per le
prime linee di colori per la produzione artistica dovremo aspettare il 1947 con
i Magna, a solvente, e il 1955, con i
Liquitex e Politec, all’acqua, tutti basati su polimeri acrilici. Messico e Stati Uniti furono l’epicentro di questa
rivoluzione sintetica. Per questo motivo nei cataloghi e nei negozi di belle
arti di tutto il mondo questa nuova classe fu identificata fin dagli anni ’60
come “colori acrilici”. Quando uscirono le linee basate su dispersioni
viniliche, come i Flashe della
Lefranc & Bourgeois (1954), o in Italia i Versil della Maimeri (1969), queste furono inserite nel capitolo
dei “colori acrilici”, e addirittura etichettate come tali: il
termine “acrilico” era diventato sinonimo di “sintetico”. Questa confusione
semantica è alla base dell’errata identificazione della tecnica esecutiva di
molte opere, specialmente in ambito europeo dove i colori vinilici furono più
diffusi: dipinti realizzati con dispersioni viniliche furono descritti come
“acrilici” dagli stessi artisti, che furono tratti in inganno dalle
etichettature, ma non può certo essere loro imputata questa imprecisione, bensì
all’impostazione commerciale che aveva originato questa stortura.
Come si vede le cose non sono affatto semplici, e la confusione è
aumentata con il moltiplicarsi delle aziende produttrici, e con la loro
ritrosia a dichiarare il tipo di leganti contenuti.
Altro fattore di incertezza è stato il moltiplicarsi dei materiali
disponibili: sono state utilizzate ad esempio resine stirene-butadiene, acro-viniliche,
ossia copolimeri che contengono monomeri sia acrilici che vinilici, oppure vinil-versatati,
vinilici plastificati internamente, ossia resi più morbidi dalla presenza di
catene laterali flessibili.
Solo pochi produttori si sono orientati sulle resine alchidiche,
più simili ai colori ad olio ma più rapide nell’essiccazione: l’inglese Winsor
& Newton, che dopo aver aperto il mercato con gli Artists’ Alkyd Colours, li ha poi sostituiti con i Griffin, apparsi nel 1976, seguita
dall’italiana Ferrario, con gli Alkyd,
nati nel 1992, e infine, dal 2010, l’americana Gamblin, con la sua recente
linea Gamblin FastMatte Alkyd Oil Colors.
Prima di procedere con un intervento di restauro su opere con leganti
polimerici sarà quindi necessario capire su che cosa andiamo ad operare, un
passaggio che richiede un approfondimento molto più necessario rispetto
all’approccio ai classici dipinti ad olio secenteschi o settecenteschi, che
raramente presentano anomalie sulla tecnica esecutiva.
La maggior parte degli studi relativi all’analisi dei leganti polimerici
in campo artistico si sono basati su due tecniche: la più utilizzata ed
economica (circa 150 euro) è la Spettroscopia
Infrarossa in Trasformata di Fourier (FTIR), che permette – nella
sua versione µ-FTIR - di lavorare anche senza il prelievo del campione, quindi
in modo non distruttivo.Questa tecnica permette però di individuare solo la classe chimica del
polimero (acrilico, vinilico, alchidico….), e non la tipologia di monomeri che
lo compongono.
La tecnica analitica che permette l’esatta identificazione non solo
della classe chimica, ma anche dei diversi tipi di monomeri presenti nei
polimeri (per esempio per gli acrilici permette di stabilire la presenza di
metilmetacrilato, piuttosto che butilmetacrilato, etc.), è la gascromatografia
associata alla spettrometria di massa,
per gli amici GC/MS. Si tratta di due tecniche accoppiate, e non solo è
molto più costosa (600-700 euro), ma richiede anche il prelievo di un campione,
che viene distrutto nel processo analitico.
La complessità dei materiali dell’arte contemporanea, non solo legata ai
leganti polimerici, ma anche ai supporti, alle preparazioni, ai pigmenti, etc.
fa sì che il restauro sia un argomento ancora intensamente dibattuto e lontano
dal raggiungere metodologie d’intervento ben delineate.
Possiamo solo accennare agli aspetti più importanti, partendo da quello
più controverso, ma anche più documentato, la pulitura.
Questi cenni sono da riferire in relazione ad opere realizzate
con acrilici, ma sono riferibili anche ai vinilici e, in parte, anche agli
alchidici, che presentano però una resistenza superiore.
Un’opera con legante polimerico presenta spesso una superfice
offuscata da una patina dalla complessa quanto ignota composizione. Il
particellato atmosferico o altre sostanze possono rimanere adese per vari
motivi: appiccicosità della superfice, legata alla migrazione degli additivi
idrosolubili, bassa Tg dei polimeri, porosità del film. Comunque sia, anche se
il manufatto è stato conservato in ambiente protetto dallo sporco, è possibile
trovare superfici opacizzate, o addirittura sbiancate, per il semplice accumulo
in superficie dei già citati additivi, quindi per la natura stessa del film
polimerico, e non tanto per una inadeguata storia conservativa. Certo è che
l’approccio finora seguito nella pulitura di superfici policrome “classiche”,
risulta del tutto inadeguato per vari motivi, a partire dagli effetti di
polarità:
• i solventi
polari, come alcoli, chetoni, acetati, aromatici e clorurati, hanno un
fortissimo effetto di rigonfiamento e solubilizzazione del polimero, e sono
quindi assolutamente da escludere, ma anche i solventi a polarità più bassa
come gli idrocarburi hanno un certo effetto, che non permette di lavorare in
assoluta sicurezza;
• l’acqua,
estesamente utilizzata per la pulitura, ha anch’essa una forte capacità
rigonfiante del film, ma non per la sua azione sul polimero, bensì sugli
additivi idrosolubili presenti in abbondanza.
Molti studi hanno cercato di rispondere ad una serie di
domande, tutt’oggi non completamente risolte:
• a fronte di un sicuro miglioramento delle
proprietà ottiche, quale peggioramento delle proprietà meccaniche e
chimico-fisiche si induce nel film con la pulitura?
• Dato che i tensioattivi hanno anche funzione
di interfaccia tra il polimero apolare ed il pigmento polare, la loro rimozione
porterà anche ad una perdita di pigmento?
• Il fenomeno della migrazione verso la
superficie è qualcosa di dinamico o è limitato al periodo immediatamente
successivo alla formazione del film?
• E se il fenomeno della migrazione è
dinamico, una volta rimossi gli additivi dalla superficie, quelli presenti
nella massa riprenderanno a migrare verso la superficie?
Per questo motivo negli ultimi anni si sono esplorate varie
strade meno invasive, tra le quali l’utilizzo di gel rigidi1,
le puliture a secco2,
e l’applicazione di gel silossanici3.
La soluzione ideale è ancora ben lontana, per questo
attualmente si preferisce tenere un atteggiamento della massima prudenza, senza
la pretesa di arrivare ad una perfetta rimozione dello sporco.
Le problematiche evidenziate per l’acqua ed i solventi organici
si amplificano nelle procedure di consolidamento. Non essendo apparso
sul mercato nessun prodotto specifico, vengono utilizzati consolidanti classici
quali il Beva 371, il Plexisol P550, l’Aquazol e le varie dispersioni
acriliche. Ma la scelta del solvente diventa ancor più un fattore critico per
la salvaguardia dell’opera.
Dato che non esiste una valida vernice all’acqua, attualmente è
la Regalrez 1094 la resina preferita in fase di verniciatura, dato che
il solvente utilizzato (ligroina o essenza di petrolio), è quello meno
influente sui leganti polimerici, anche se, come detto sopra, non del tutto a
impatto zero.
Per chi desiderasse approfondire l’argomento, è in uscita per
Nardini Editore il libro
“I leganti dell’arte contemporanea”, di Leonardo Borgioli, con
contributi di Giulia Gheno e Mirella Baldan.
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1
Francesca
Secchi, Sabrina Sottile; “I colori
acrilici in emulsione: problemi connessi ai trattamenti di pulitura acquosi e a
solvente e valutazione dei loro effetti”. X Congresso Nazionale IGIIC – Lo
Stato dell’Arte – Accademia Nazionale di San Luca, Roma - 22/24 novembre 2012
2 Maude Daudin-Schotte, Madeleine Bisschoff, Ineke
Joosten, Henk van Keulen, Klaas Jan van den Berg; “Dry Cleaning Approaches for Unvarnished Paint Surfaces”, Atti
della conferenza internazionale Cleaning 2010, Valencia, Smithsonian
Institution Scholarly Press. Il report del progetto è stato pubblicato
nel 2014 da Il Prato nei Quaderni Cesmar7 n°12 “Analisi e applicazione di materiali per la pulitura a secco di
superfici dipinte non verniciate” di Maude Daudin-Schotte, Henk van Keulen,
Klaas Jan van den Berg.
3
Anthony
Lagalante, Richard Wolbers; “The Cleaning
of Acrylic Paintings: New Particle-based water-in-oil Emulsifiers”, Atti
del Convegno “Dall’olio
all’acrilico, dall’impressionismo all’arte contemporanea” Politecnico di Milano 13-14 novembre 2015.
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